La Procura di Forlì archivia il ‘caso Pantani’. La famiglia si oppone. “Gli Atti vadano alla DDA di Napoli, sula morte di Marco l’ombra lunga della Camorra”.
E’ guerra tra i familiari del ciclista trovato morto in una stanza di un residence di Rimini il 14 febbraio 2004, e gli inquirenti romagnoli che da anni indagano su quella strana morte.
Secondo i parenti del Pirata, Marco Pantani non si sarebbe mai ucciso. E la sua morte sarebbe in qualche modo legata alle scommesse clandestine e alla droga gestite in Romagna dalla camorra napoletana.
“La Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ha tutte le competenze per indagare sugli ultmi anni di vita e sulla morte di Marco – dicono i familiari – e sarebbe importante continuare a cercare la verità”.
Secondo chi è vicino al campione romagnolo furono i clan a fermare il cicista il 5 giugno del 99, alla vigilia della penultima tappa del Giro d'Italia. "La camorra minacciò un medico per costringerlo ad alterare il test e far risultare Pantani fuori norma". Scrisse il procuratore capo Sottani. Successivamente un controllo antidoping effettuato a Madonna di Campiglio trovò il pirata con un ematocrito al 51,9% contro il 50% consentito dalle norme dell'Uci, la federciclismo mondiale. Da quel momento nulla fu più come prima. E Pantani cominciò la sua discesa verso gli inferi. La Depressione, la droga, la morte.
Da una serie di intercettazione emerse che a parlare di Pantani ai clan camorristici napoletani fu l'ex boss Augusto La Torre. All’incontro parteciparano i capiclan Luigi Vollaro, di Portici, Angelo Moccia, di Afragola, e il casalese Francesco Bidognetti. Tutti e tre confermarono che «solo i Mallardo di Giugliano, con poteri decisionali nell'Alleanza di Secondigliano, potevano aver fatto una cosa simile». Il motivo? Per coprire le scommesse clandestine.
Ora la famiglia vuole che si continui a cercare la verità “perché il reato non è prescritto”.