GIOVEDÌ 21 NOVEMBRE 2024




In scena al Piccolo Bellini

La Macchia di Fabio Pisano: dialoghi di perdite

Tra esistenze che parlano una lingua sorda e silenzi ingombranti

di Federica D'Auria
La Macchia di Fabio Pisano: dialoghi di perdite

Lei, Lui, S. e La Macchia.

Una donna, due uomini e una macchia che non si conoscono, che fanno fatica a parlare, che vivono nello stesso palazzo; è una famiglia, un matrimonio, sono vicini lontani estranei, legati da una macchia che separa, sporca, che sta per fare muffa.

C’è sempre una richiesta velata prima della fine di qualcosa, un varco che si schiude appena prima della totale mancanza di cura e di compassione. Una domanda di accoglienza, una scusa, proprio come una macchia al soffitto per parlarsi, per risolvere, per trovare una soluzione.

Però poi dilaga. Perché è più semplice, pare e così è in “La Macchia” di Fabio Pisano, non cogliere le parole di chi ti è immediatamente prossimo, figurarsi in chi ti è straniero.

Appare complicato ascoltare una richiesta di aiuto o di prossimità, di un vicino, di un amore, di un figlio mai nato o forse scomparso per distrazione.

Se la proposta è avanzata da un estraneo, da uno straniero che vive al piano di sotto, in quello che la coppia chiama seminterrato (sociale), diventa quasi, in un matrimonio come quello tra Lei e Lui, il pretesto per coalizzarsi pur non comprendendosi, pur di non comprendersi.

C’è un lasso di tempo ben preciso in “La Macchia” che scandisce e ripete la vicenda ma i contorni temporali sono del tutto astratti.

Il ritmo calzante è volutamente meccanico nei dialoghi, interpretati da Francesca Borriero (Lei), Michelangelo Dalisi (S.) ed Emanuele Valenti (Lui), che con tono, velocità, intensità hanno dato una tale verità ai personaggi da renderne imprevedibili i gesti ripetuti in loop, tenendo alta una tensione che si fa elemento vivo grazie alla loro magistrale messa in opera.

Lei, silenziosamente feroce e forse (falsamente) svampita; Lui, forse vigliacco, forse ipocrita; S., che è un pò colla, un pò divisore, forse figlio, forse mai nato, sicuramente straniero repulso.

La scena (a cura di Luigi Ferrigno) è intima, semi nuda, piena del necessario: l’asse da stiro che si fa complice bugiardo tra Lui e Lei, crocefisso per S., marmo freddo e pesante tra i tre; la rucola che non disseta, pretesto per la ricerca di qualcosa di assopito; l’acqua versata e lasciata scorrere, come le cose che perdono di valore perché perdono di attenzione; il giro d’Italia, passione dimenticata e venerata all’occorrenza; la macchia, come mezzo e fine, principio e coda di tutto.

Le luci di Paco Summonte riscaldano e raffreddano i momenti presenti e passati, rinnovando la scena pur ripetendola, creando circolarità; così come i costumi di Rosario Martone rappresentano fedelmente le differenze sociali e la disunione tra i tre.

Con drammaturgia e regia di Fabio Pisano, supportato da Francesco Luongo (assistente alla regia), “La Macchia” è un progetto di Liberaimago, prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini, in cui silenzi e parole bilanciano le differenze profonde, le menzogne, la diffidenza per lo straniero, l’ipocrisia nei rapporti, le difficoltà di comunicazione tale da diventare passivo-aggressiva.

Fabio, pesano di più i silenzi o le parole?

Per me in generale pesano sempre più i silenzi; le parole mentono, sempre.

Soprattutto in un testo come La Macchia, un testo che a primo acchito sembra essere "assurdo", ma che in realtà svela un dis-ascolto feroce, una modalità di "percezione" che ci riguarda molto da vicino, per questo amo dire che è un testo realmente contemporaneo.

 

La scelta di non utilizzare musiche?

Ho riflettuto molto sulla possibilità di usare suoni/musiche, soprattutto perché per me la musica è una passione primaria, necessaria.

Ma poi ho pensato che le parole dovessero rappresentare l'unica, bugiarda, incursione nel silenzio e che quelle parole, non avevano bisogno di nessun suono o musica, perché altrimenti avrebbero rischiato di "ammorbidirsi", avrei rischiato di trasformare tutto in teatro, quando lì, in realtà, c'è una buona fetta di vita.

 

S. (Michelangelo Dalisi) esiste o è pura metafora?

S. è una metafora.

Di chi sta sotto, di chi vive "sotto di noi" nella scala sociale, una scala ormai allestita da una borghesia sempre più sorda al grido d'aiuto del mondo sotterraneo, di quel mondo che non ha alcun ruolo nella nostra vita, se non quello che noi finiamo per affidargli, semplicemente in base alla nostra necessità del momento.

La Macchia vi aspetta fino al 15 gennaio al Piccolo Bellini di Napoli.

| Foto di Salvatore Pastore


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12-01-2023 10:49:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA