Che cosa trasforma un paese in una “Comunità”?
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piazze, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” , da "La luna e i falò" di Cesare Pavese.
Cosa è un paese? Che sia un piccolo centro abitato, una città periferica o la grande metropoli, il “paese” è il luogo dove siamo nati, dove siamo cresciuti e abbiamo studiato, dove c’è la famiglia, quella allargata a cugini, zii e nonni. Dove abbiamo avuti i nostri primi amici, quelli delle elementari e poi delle medie e delle superiori. Il paese è quello dove, nell’angolo più buio di una viuzza stretta, abbiamo dato il nostro primo bacio. E’ quel luogo dal quale un giorno abbiamo deciso di allontanarci, per poi continuare a tornare, sempre. Ufficialmente per rivedere i parenti, ma in fondo in fondo perché a noi fa piacere tornare. Attraverso quel tuffo nel passato ci sembra di tornare a quell’età, a quella gioventù. E ora ci sembra perfino bello ciò che allora denigravamo: l’assenza di centri commerciali, di auto, della corsa spasmodica di tutti verso non si sa bene cosa, quella dinamicità che a noi giovani occorreva come ossigeno. Ci piacerebbe che restasse per sempre così come lo avevamo lasciato: lento, un po’ trascurato. E’ quel posto dove tutti si conoscono e si sa tutto di tutti. Quanto ci disturbava allora e quanto invece ci intenerisce oggi. Essere salutati da persone che non ricordiamo più, ma che ci raccontano tutta la loro genealogia, e allora sì che ricordiamo anche noi.
Ma la domanda era: Che cosa trasforma un paese in una “Comunità”?
Mi sembra di poter dire che allora avevamo precisa l’idea che il nostro paese fosse una Comunità, ma oggi? Lo è ancora? Oppure nella “frenesia della vita moderna” abbiamo perso per strada questo bene prezioso? Allora ci rifacciamo di nuovo la stessa domanda: Che cosa trasforma un paese in una “Comunità”? Provo a ragionarci un po’.
Di sicuro i servizi, ma anche la trasparenza degli atti amministrativi, così come la fiducia negli Amministratori.
Ci si sente orgogliosi se ci si può vantare di avere nel proprio paese delle strutture di eccellenza, che siano nel campo dell’istruzione, o della sanità, o delle attività sportive, non importa.
Ci rende fieri avere nel proprio territorio e a propria disposizione una ASL efficiente, una piscina o un campo di calcio che sforna piccoli atleti, un Istituto Superiore di qualità, al quale si iscrivono ragazzi anche dai paesi circostanti. E che si svolgano attività culturali di prestigio, presentazioni di libri di ampio respiro, concerti di musicisti famosi. Che i conti economici comunali siano in ordine e che le nostre tasse siano le più basse del territorio. Incontriamo per strada gli Assessori e ci fermiamo a prendere un caffè con loro amabilmente, perché li percepiamo come simili a noi, per nulla inorgogliti della loro posizione elettiva. Se prendono una decisione, che sia un nuovo senso unico o un nuovo parcheggio, noi sappiamo che lo fanno nel nostro interesse, perché abbiamo fiducia nel loro operato. Tutto ciò che hanno realizzato in precedenza ci fa essere fiduciosi nei loro confronti.
Ma ci sono altri due fattori spesso poco valorizzati, e sono l’Orgoglio e gli Obiettivi Comuni.
Da cosa deriva l’orgoglio? Alcuni lo chiamano senso di appartenenza e dipende essenzialmente dalla conoscenza della propria storia, dalla valorizzazione positiva di questa storia. Altri la chiamano “identità”, ma proprio oggi la confusione su questo termine ha raggiunto apici mai visti prima. Se si conosce la propria storia, allora si conosce anche la propria identità, ma, se si ignora tutto di chi siamo stati, è impossibile definire compiutamente anche la propria identità. Fin troppo spesso l’identità di un paese viene valorizzata positivamente e riconosciuta nella locale squadra di calcio. E ciò è sufficiente a rappresentarla. Su tutto il resto si glissa facilmente. E se, invece che fare viaggi culturali in giro per le capitali europee, venisse proposto alle scuole di ogni ordine e grado, di ripercorrere le vie del centro storico del proprio paese e di quelli più vicini, dei luoghi maggiormente significativi del circondario? Se si tornasse alle piccole cose, ai piccoli passi, nella costruzione di un’identità comune e condivisa? Aumenterebbe l’orgoglio? Credo di sì, e con l’orgoglio aumenterebbe il senso di appartenenza, la conoscenza delle proprie origini.
E cosa sono gli obiettivi comuni? Probabilmente possiamo definirli come obiettivi espliciti, cosa vogliamo essere di qui a x anni? Definire ciò, esplicitarlo, farne un obiettivo di tutti, ecco questo rende una somma di individui una comunità, fa loro accettare i sacrifici di oggi, in vista di un risultato futuro maggiormente positivo. Occorre del talento, è indubitabile. E coinvolgimento, in particolar modo delle fasce più giovani della popolazione. Occorre tempo, per condurli per mano alla responsabilizzazione. Occorre pazienza e obiettivi chiari. Come fare allora per risvegliare l’orgoglio? E per farne un tratto distintivo? Come far uscire dall’individualismo e dall’apatia persone fin qui disinteressate alla vita comunitaria? Alcuni paesi ci riescono, altri no. Bisognerebbe analizzare quelli a risultato positivo e carpirne il segreto, poi duplicarlo. Credo però di aver già suggerito molto.
Laura Ravone