"Il mio sogno è diventare avvocato o docente universitario". In carcere da quando aveva 19 anni, pensa di uscirne intorno ai 45. Catello Romano ha ucciso, killer giovanissimo partecipò all'omicidio di Gino Tommasino avvenuto davanti allo sguardo terrorizzato del figlio il 3 febbraio del 2009. Il ragazzo, con in tasca il diploma di liceo classico e la tessera del Partito democratico, deve rispondere di più di un delitto come killer del clan D'Alessandro. Ha scelto di non collaborare con la giustizia e di scontare tutta la sua pena. Ma si è convertito al buddismo e il suo tempo in cella lo trascorre studiando. Un libro dopo l'altro per realizzare il suo sogno. "Certo, me la sono cercata e merito la pena che pertanto sconto, com’è giusto che sia, e lo faccio con piene consapevolezza e responsabilità, eppure, contro ogni logica visione di recupero sociale del condannato, contro ogni ragionevole e doveroso interesse a ciò nell’interesse di tutti, nessuno – e dico nessuno – si è mai peritato di chiedermi; “ma lei cosa vuol fare da grande? Ha un sogno, un progetto per il suo domani?’… eh sì, ‘ da grande’ e “sogno” sono le espressioni che ho usato, perché sono entrato in carcere appena compiuti i 19 anni d’età, quindi poco più che un ragazzino, ed ora sono ( quasi) un uomo, dunque ho dei sogni, come chiunque altro". Il suo è un lungo ragionamento, una lettera a sua firma che invia al quotidiano il Dubbio sul tema della detenzione e di come il sistema carcerario italiano non metta in condizioni chi esce dal carcere di farsi una vita differente da quella che aveva quando è entrato. Per Catello Romano si tratta di scrivere una pagina diversa, dopo quella che ha contribuito a determinare di uno dei tratti più neri della storia di Castellammare. Da affiliato al clan teorizzava la scelta di avere aderito all'Antistato con lucidità, ma ora immagina il suo futuro dalla parte della legge. La sua riflessione, che non dedica pensieri alle famiglie delle vittime, comincia dalla nomina di Pietro Ioia a garante dei detenuti. "Una sorprendente notizia – anche per me che sono ‘ ospite” dello Stato e conosco dal di dentro certe ‘ dinamiche’ mentali – della nomina a garante locale dei diritti dei detenuti di una persona anch’essa passata per le patrie galere, un ex detenuto, il Sig. Pietro loia, conferitagli nientemeno che dal sindaco napoletano De Magistris, ex magistrato. La cosa mi ha ridato subito di che sperare per il mio futuro, suscitandomi – lo ammetto non poca commozione, poiché 29enne e detenuto da 10 anni e con in vista un rilascio per quando ne avrò circa 45 – con buona pace dei proclamanti “pene certe’ perché in Italia ‘ nessuno ci va in galera’ oppure s’immagina “porte girevoli’ ( sic!!). Ho pensato: «Ma allora mi sono sbagliato, la società in cui vivo è matura per scelte del genere, posso ancora rientrarvi e svolgere, ad esempio, la professione d’avvocato oppure di docente universitario, il mio sogno nel cassetto»… e invece no!". Dalle contrarietà che questa nomina ha suscitato Romano fa partire la sua riflessione su quanto avviene nelle carceri: " Chi conosce sul serio le condizioni delle nostre carceri – e qui va dato atto all’esimio impegno d’informazione del Dubbio e di pochissime altre fonti – e sa della drammatica carenza di personale qualificato per il “trattamento rieducativo’ ( educatori, psicologi etc.), sa anche che non sto dicendo nulla d’incredibile, perché sono veramente in tantissimi a rimanere pressoché fermi al giorno del loro arresto, specie se giovanissimi, senza aver fatto nessun progresso della personalità che non sia di tipo anagrafico- somatico, a tacer poi del trattamento spesso volutamente mirato all’infantilizzazione della persona detenuta ( la ‘ domandina’, lo “spesino’, lo ‘ scopino’ etc.), quando non anche all’offesa pura e semplice nella sua dignità di uomo e di persona". Da giovane e spietato killer a uomo di cultura e diritto, Romano la strada giusta racconta di averla già intrapresa anche grazie alla sua compagna. Il suo appello è per gli altri detenuti: "Io le mani che incarnino questo Sommo Bene le ho trovate, ma sono uno fortunato. Penso a quanti, e sono tanti, che per un motivo o per l’altro non sono cosi fortunati come me. Invito, pertanto, ognuno di voi a diventare mani tese per qualcuno che ne abbisogna. E vi invito, inoltre, a ricercare lo sprone ad essere speranza. Siatelo anche voi, grazie". Resta aperta la ferita di chi ha visto morire un proprio caro in una guerra non dichiarata.
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